mercoledì 19 dicembre 2012

#instalovers

Filtro Instagram lo-fi su schermata sito Instagram, Milano 2012, ©Instagram



Stamattina il mio primo pensiero è stato tipo: "oh cazzo, quindi mo' che faccio con Instagram?!!". Quando sentirò la mia fidanzata e mi chiederà se, come tutte le mattine, il mio primo pensiero della giornata sia stato dedicato a lei le risponderò, ovviamente, di si. Piuttosto preoccupante in effetti. 

Quando, un paio di giorni fa', sulla schermata di Instagram, è comparsa la notifica con i nuovi "termini e condizioni" ho fatto finta di ignorare che si fosse giunti a un punto di svolta. Ieri mattina ho provato a cancellare una fotografia caricata, ma che non mi soddisfava particolarmente, vedendomi impossibilitato a eliminarla perchè "per poter eliminare la foto occorre aggiornare il programma" e per farlo è obbligatorio accettare le nuove regole. Acceso il calcolatore di ultima generazione ho appreso del terremoto che stava vivendo la rete a causa della scelta dell'app. di aggiornare i parametri di relazione tra essa e gli ormai milioni di utenti raggiunti. In termini più o meno catastrofici, vari giornalisti, o opinionisti, o gente che ha condiviso articoli senza leggerli, ma colpita dal titolo, segnalavano che, a partire dal 16 di gennaio 2013, Instagram avrebbe potuto vendere le fotografie (e le informazioni degli account pubblici) alle aziende loro collegate. 
Alcune delle trattazioni prospettavano, per IG, un futuro da agenzia fotografica globale che si sarebbe servita di una valanga di fotografi più o meno ignari di lavorare gratis per una società da 1 miliardo di dollari (valore di acquisizione di Instagram da parte di Facebook). Effettivamente una notizia pazzesca verso la quale mi è scattata subito la più grossa delle indignazioni e la conseguente decisione di opporsi a un diktat simile. Se possiamo definire delusione la sensazione prodotta da un software nei confronti di un candido essere umano allora c'è veramente qualcosa che non va'. 
Le cose possono essere messe a posto se l'essere umano in questione comincia a farsi delle domande per capire la situazione e decidere il da farsi. Se questo esemplare della pura umanità vive scattando fotografie è, diciamo così, obbligato a farsi un'idea il più possibile chiara, non tanto, giunti a questo punto, riguardo l'intenzione manifesta e quella mascherata di una società che lo ha fatto divertire un mondo a scattare-modificare-condividere le sue foto, ma nei confronti della sua posizione all'interno di quel gioco che modifica le sue regole durante la partita e ti obbliga a ritirarti se non gli consenti di disporre come gli pare delle immagini che hai prodotto. "la palla è mia quindi questo è un calcio di rigore, ecco".
Avvantaggiato dalla disponibilità, in termini temporali, all'elaborazione di pensieri filosofici più o meno utili, l'immacolato fotografo che sono si è domandato se, indipendentemente da tutto, non fosse giunto il momento di cagarsi un po' meno Instagram e scattare un po' più fotografie non generate dalla smania di mostrarle al mondo in tempo reale. 
La paura che Instagram avesse espresso il desiderio di impadronirsi delle mie immagini per conquistare il mondo era diventato un aspetto marginale. Si trattava, piuttosto, di compiere un atto soffertissimo, ma che avrebbe provato a me stesso (e magari suscitato domande negli altri) di essere ancora padrone delle mie scelte, non solo delle mie foto. 
A tal proposito ho letto ripetutamente che Instagram diventerebbe proprietario delle fotografie ecc... Il concetto può essere simile, ma per chiarezza, e lo scrive anche il co-fondatore di IG, Kevin Systrom, dopo la bufera che ha travolto lui e la sua società nella giornata di ieri, le foto rimangono di proprietà dell'autore. Anche il diritto di paternità delle immagini, che per legge non può essere disgiunto dall'autore delle stesse, rimane esterno dalle rivendicazioni dell'app. Che gli frega di possedere una foto? Basta arrogarsi il diritto di lucrare su di esse. Il fotografo potrebbe comunque prendere una data immagine da lui scattata e venderla all'azienda X. Loro dicono suppergiù così: "Se accetti di pubblicare le tue foto (come le tue informazioni personali) sulla nostra piattaforma, noi possiamo, legittimamente, utilizzarle come ci pare". Potrebbero utilizzarle all'interno del mondo del loro social network (che ha comunque raggiunto dimensioni globali ed è tutt'uno con il colosso di Mark Zuckelberg) e per esercitare tutte le attività che ritengono necessarie ai fini anche di marketing. Si, perchè Instagram è nata come società per generare business e lo ha detto sin da subito. E ci mancherebbe altro, tutti devono portare a casa la pagnotta. E' la caduta di stile che scoccia.
Che nessuno ti regali niente e che il diritto di Instagram di generare profitto attraverso la sua attività sia cosa sacrosanta non impedisce, a chi vuole analizzare la situazione dal suo punto di vista, di trovare particolarmente poco carino che milioni di persone, felici e contente per la possibilità di giocare e divertirsi con un così bello strumento, vengano attirate in questo mega paese dei balocchi, fatte sfogare per un po' e poi risvegliate da un avviso che li informa che qualcosa cambierà, ma che, nell'aggiornamento c'è un filtro nuovo e la grafica è più figa. 1/100 di quelli che usano Instagram, e ne apprezzano le funzioni, assumerà un atteggiamento critico e magari 1/1000 cancelleranno il loro account (unico modo attraverso cui scongiurerebbero questa possibilità di diventare potenziali produttori di contenuti commerciabili gratuitamente). Quelli che possono essere calcolati come una perdita fisiologica prevedibile (sacrificabile in favore dell'enorme vantaggio portato dalla nuova politica).
A differenza di Facebook, dove posso scrivere scemenze, condividere link, farmi 2 risate, rimanere in contatto con persone dai 4 angoli del pianeta, e guardare le foto delle mie amiche (e delle loro amiche) in micro costume d'estate, Instagram perde il suo interesse senza le fotografie. Semplicemente non ha più senso.
Si evince dunque che la merce su cui Instagram intenderebbe lucrare è proprio quella prodotta dagli utenti e presente a milioni (immagini belle e brutte di ogni cosa) negli archivi del social media. Merce pronta per essere saccheggiata entro un mese, complice, da parte degli utenti, il disinteresse verso le conseguenze o la preminente necessità di continuare a imperversare con questo diabolico marchingenio. L'autore di tale merce metterebbe quindi a disposizione di aziende private la sua proprietà intellettuale (e i suoi dati) senza poter avere voce in capitolo (e senza sapere a beneficio di quale brand o ente questa merce vada a finire!!!).
Poco importa, a mio avviso, che non si tratterebbe di campagne pubblicitarie o cataloghi. Non ancora almeno. Oltretutto si dice nei vari commenti che le dimensioni del file-foto siano inadatte a una stampa sfruttabile in termini commerciali dalle aziende. Penisamo a chi avrebbe mai pensato, 3 anni fa, di poter scattare immagini con un telefonino e poterne ricavare un prodotto di qualità così elevata? Poco importa anche che, ad ora, l'utilizzo paventato delle foto possa essere sfruttato entro i limiti di influenza di Facebook-Instagram perchè con queste premesse, usando un francesismo... ti giri un attimo e zac!
Avrei preferito pagare 1$ l'app. Qualcuno convinto che tutto debba essere gratis si sarebbe lamentato, ma io li avrei sborsati volentieri. Anche 2$, toh 3$, roviniamoci.

venerdì 14 dicembre 2012

La tua foto della neve

Schermata della pagina web del quotidiano La Repubblica, 2012, © Mac Book Pro di MiLo


Come sono bravo. Ho scattato la fotografia di una fotografia da una schermata web senza uscire di casa né alzarmi dalla sedia. L'ho scattata senza manco impugnare una fotocamera o uno smartphone, ma premendo i comandi TAB+Mela+Shift (o è quell'altro)+4+CLick dalla tastiera del mio Mac.
Ho fotografato la neve come chiunque altro si sia svegliato, stamane, nelle aree imbiancate del nord Italia. A me la neve piace. Quando c'è da lavorare un po' meno, ma così è la natura e non ci si puo' accanire troppo contro di lei che abbiamo ben in mente, se si arrabbia, cos'è capace di combinare. Da Noe' allo Tsunami.
All'epoca in cui aggredivo le strade con la brama di scattare fotografie degli eventi del quotidiano, attività in cui consisteva il mio lavoro e per la quale venivo pagato (e a mia volta pagavo la spesa, le bollette e le tasse... tranne la Tarsu che me la sono dimenticata e ormai sono 5 anni che... vabbè), la prima vera neve dell'anno era un'occasione per rimboccarsi le maniche sul serio, cercare gli scatti più rappresentativi e inviarli rapidamente ai giornali, impazienti di offrire immagini suggestive ai propri lettori.  I colleghi più veloci riuscivano a pubblicare le loro fotografie sulle gallery online dei siti web delle testate giornalistiche addirittura entro le 9.00 della mattina. 10-15-20 fotografie potevano rappresentare un decente bottino, in termini monetari, che andava a premiare (se così possiamo dire) l'impegno e il mestiere di chi, ogni giorno, forniva a questi ilustri clienti il materiale più vario per la copertura delle sue notizie: sport, cronaca, politica, economia, spetacoli e così via. 
Stamattina mi sono svegliato sapendo già cosa avrei trovato accendendo il calcolatore di ultima generazione. E non mi sono sbagliato. Tante foto di neve su Facebook, tante foto di neve su Twitter, tante foto di neve su Instagram, tanta neve fuori dalla finestra e allora ho voluto chiudere il cerchio verificando con i miei stessi occhi, e subito, a che livello fossero giunti i giornali alle soglie del 2013.
L'impressione che ho avuto, aprendo prima il sito di Repubblica per non subire troppo violentemente l'impatto con quello del Corriere, è stata che il giornalista incaricato di pubblicare la gallery sulla neve campeggiante come prima notizia nella homepage, abbia compiuto, suppergiù il mio stesso processo mattutino: farsi un giro su Facebook, su Twitter, su Instagram, ma senza limitarsi a scorrerne velocemente i contenuti e commentando più o meno intelligentemente le imamgini, bensì, convinto di navigare nel mare di nessuno, abbia fotografato le schermate di utenti a caso (immagino ignari che il loro contatto fosse reso nazionalmente pubblico) e inserito quelle pessime immagini (dover di critica mi consente, spero, di essere così drastico nel mio giudizio estetico e di merito dei prodotti selezionati) tra i contenuti più in vista della giornata. 
Beh, qualità delle foto ed etica professionale a parte, io mi chiedo come sia possibile definire queste immagini delle notizie. Chi mi dice che @lesleymilano o @MatteoPiCi o altri non abbiano scattato quella foto l'anno scorso, abbiano scattato una foto di una foto di una foto o magari l'abbiano pasticciata con photoshop?! Una notizia (e una foto notizia ricade naturalmente nella categoria) non andrebbe forse verificata? I giornalisti, così come i fotoreporter, sono soggetti a un Ordine professionale che dovrebbe porsi alcune domande, ma non ci pensa nemmeno.
Da un paio d'anni, ormai, i giornali invitano i lettori a mandare le loro foto gratis quando il sito su cui le pubblicano è pieno zeppo di pubblicità. Già allora, si stavano ampiamente torturando fotografia e i suoi operatori.  Oggi penso sia il punto più basso che abbiano mai raggiunto. Quindi io prego affinchè tutti questi sapientoni perdano il posto di lavoro da domani, perchè non ne sono degni. In strada abbiamo bisogno di spalatori quindi un modo per campare ce l'avrebbero lo stesso. Possibile che non ci sia nessuno direttore che si ponga delle domande in merito?!
Buona neve a tutti!
 

  

martedì 27 novembre 2012

Esiste solo se stampata

Le mie foto vengono appese. Milano, 2012 © MiLo Sciaky



Incaricato dal magazine WIRED, ieri pomeriggio ho provato, in anteprima, la nuova fotocamera Mirrorless di Canon. La Eos M.
Prima di aver potuto dare sfogo alla mia attività di test-man sono stato costretto ad assistere alla presentazione del prodotto (io che fatico a ricordarmi chi tra Canon e Nikon utilizzi le cifre prima delle lettere maiuscole per identificare i suoi modelli).
Ligio al mio incarico ho addirittura preso appunti mentre i due esperti dell'azienda illustravano alla platea le caratteristiche della fotocamera digitale. Terminata la spiegazione si è avvicinato al tavolo degli oratori quello che sarebbe, immagino, dovuto essere l'addetto al reparto stampanti di Canon, con il compito, a sua volta, di parlare brevemente di quel comparto. Le stampanti appunto.
Magari perchè direttamente interessato, magari perchè tecnico illuminato, magari perchè alla ricerca della battuta d'effetto, il tizio in questione ha esordito con la seguente frase: "sappiamo tutti che una fotografia non è tale fino a quando non viene stampata". Preso dall'entusiasmo ho applaudito. Forse ho anche detto "bravo!". Ad alta voce. Forse pensavo che tutti i presenti condividessero, senza riserve, la mia militanza fotografica. Forse ero seduto da quasi un'ora e avevo bisogno di una scossa di vita. Ho applaudito per un secondo e mi sono sentito orgoglioso di averlo fatto. Il secondo dopo mi vergognavo un pochino, ma anche chissenefrega.
Dopo le 2 ore di tour con in mano la nuova macchinetta siamo tornati alla base e le foto scattate sono effettivamente state stampate. Come un bambino ho subito chiesto di poterle portare a casa con me e adesso ce le ho qui sul tavolo. Sono piccoline, non certamente le più belle immagini che io abbia mai prodotto, ma sono reali, giro lo sguardo e me le trovo li senza che vengano coperte dalle finestre di Facebook, di Twitter, del Corriere o dell'home banking. Le posso prendere in mano e appoggiare. volendo potrei incorniciarle e appenderle al muro, appiccicarle in un album e non guardarle mai più.
Una foto esiste se stampata. Certo. Bisogna capire cosa intende ognuno con il termine fotografia, ma per me può benissimo essere così: che le altre immagini, miliardi, sono solo dei file in rete o in formato digitale che aspettano di venire stampate.

giovedì 22 novembre 2012

Super-fotografi

© MiLo Sciaky per il blog "Architoast", 2012



Adesso è diventato chiaro più o meno a tutti: i fotografi sono una categoria tremendamente flagellata. Flagellata dall’avvento del digitale, flagellata dai giornali cattivi, da internet, dall’app del divaolo (instagram), ma anche da eventi macroeconomici quali la crisi di Wall Street e micro (economici) come il sushi a 10 euro. Senza dimenticarci del flagello più grande del 21° secolo: “The Apprentice”. Il talent show di Flavio Briatore. Diventa quindi indispensabile fornire un’analisi accurata della situazione, cominciando con lo svelare un segreto: la fotografia gode di ottima salute solo che si è rotta i maroni di manifestarsi nei soliti posti e così ha deciso di giocare a nascondino per un po’.
I fotografi hanno così dovuto ingegnarsi per continuare ad esistere. La fotografia non è morta. Nient’affatto. Se ci fate ben caso è ovunque. E’ ovunque perché ci sono delle persone che scattano quelle immagini. Adesso le scattando con telefonini, con le macchine compatte che vanno a 10 metri sott’acqua e che girano filmati in fullHD, ma la produzione non si è mai fermata, è quintuplicata. Che dico, decuplicata e continuerà ad aumentare in maniera esponenziale.
Che cosa è cambiato quindi? Perché l’atteggiamento degli operatori del settore è così negativo? Sono dei matti maniaci di vittimismo? No. La fotografia permea le nostre vite, ma essa non è più percepita come un prodotto realizzabile esclusivamente dai professionisti, cui ci si rivolge solo per esigenze specifiche e mal volentieri (fatti salvi rari e virtuosi casi). Lo strato più apatico della società manco riesce a concepire che le fotografie possano essere il frutto dello studio, dell’ingegno, dell’investimento, della cultura e della sensibilità di un fotografo. A causa della sempre minor valorizzazione della fotografia sono portati a pensare che una volta realizzata, essa, diventi automaticamente patrimonio pubblico e gratuito. Lo pensano i medici che si fanno pagar fior di parcelle per farci fare 2 colpi di tosse; i meccanici che tanto avvitare 2 bulloni sarà mica questa gran fatica; lo pensano gli ingegneri che in fin dei conti i palazzi li costruivano più alti quando c’era la torre di Babele e c’è poco da fare i gradassi. 
La foto, infatti, non è un bene primario e non ha poteri curativi. Non si mangia e non ci si conquistano le ragazze, quindi, se percepito come una voce di taglio nella spesa e nel consumo, il suo bisogno diminuirà sempre più fino a diventare superfluo. Il mercato più saturo di tutti.
Questa perdita di autorevolezza e considerazione non è derivata da un processo repentino: il mercato aveva cominciato a dare segnali poco rassicuranti già tanto tempo prima, ma citando il film “La Haine” diretto da Mathieu Kassovitz, era come se la fotografia stesse cadendo dalla sommità di un grattacielo e si ripetesse, di continuo, senza che nessuno fosse in grado di sentirla, “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Ma il problema non era la caduta. Era l’atterraggio visto come l’assunzione di coscienza dei fotografi nei confronti di una professione, la loro, che così come avevano imparato a conoscerla e ad amarla, non sarebbe più stata la stessa.
Molti di questi spiriti liberi e creativi sono riusciti a reagire e a rimescolare le loro carte sul tavolo da gioco. Hanno cominciato a prendere confidenza con i nuovi media e a utilizzarli nelle attività legate al loro lavoro: se c’erano i disinvolti (anche all’interno dei giornali stessi che rappresentavano, fino ad allora, il loro interlocutore storico e primario) i quali raccoglievano fotografie da Facebook come fossero centesimini smarriti sul marciapiede, loro provavano a diventare amici dei il social media e ad ampliarne gli utilizzi. Sono diventati da soli efficienti uffici stampa, di comunicazione, marketing e anche maghi della post produzione, grazie all’infinità di video tutorial (free) che si trovano sul web. Alcuni con più tempo libero a disposizione si sono messi a scrivere cose di dubbia necessità sui blog, mentre altri si sono organizzati in maniera strutturata dando vita a una moltitudine di magazine online cui non avrebbero mai potuto dar vita usando i canali tradizionali, a meno di non chiamarsi Berlusconi o De Benedetti o Murdoch.
Questi nuovi prodotti umani della comunicazione visiva hanno affinato nuove capacità e sviluppando quelle già esistenti, che fino a quel momento erano rimaste inutilizzate. Si sono insomma trasformati in Tras-fotografi, qualcosa di più, o Super-fotografi. Solo che guadagnavano meno. Comprensibile. Per ogni Tras e Super qualcosa i primi tempi sono molto duri e pieni di incertezze.
E' così che in una fucina creativa dal vago fermento imprenditoriale (con buona pace di coloro che ideologicamente ne rifuggivano la definizione) sono nate piattaforme di condivisione e vendita per professionisti o amatori evoluti. Dei veri e propri archivi online globali come Photoshelter capace di attirare un'infinità di professionisti che hanno scelto di diventare freelance, che ha allargato la sua offerta di servizi addirittura organizzando workshop online in grado di mettere insieme utenti dai 4 angoli del pianeta.  
O ancora siti di crowdfounding come Kisskissbankbank, attraverso cui raccogliere finanziamenti con lo scopo di realizzare i propri progetti fotografici diventati sempre più costosi e dal difficilissimo ritorno economico.
E poi c’è il Microstock. Corrente di pensiero verso cui, specie ultimamente, vari colleghi si sono convertiti. Piattaforme come Shutterstock, ad esempio, offrono ai loro clienti immagini royalties free, e rendono possibile per un fotografo (amatore evoluto o professionista) contribuire all'alimentazione di un magazzino di milioni di immagini con decine, centinaia, migliaia di fotografie degli argomenti più vari tipo catena di montaggio, ma senza subirsi redazioni con pretese, clienti con pretese, e il cartellino da timbrare. Gli interlocutori per questo sistema di lavoro sono tutti o nessuno, quindi, senza una committenza precisa è diventato possibile alzarsi la mattina e decidere di uscire per strada e fotografare per 2 ore solo tubi di scappamento di macchine rosse oppure foglie di alberi da vicino.
La morale? C’è un mondo là fuori che aspetta solo voi! In verità non aspetta proprio per nulla quindi sarà il caso di muoversi!

Uno di questi nuovi e intrepidi protagonisti dell'era della condivisione si chiama Eugenio. Eugenio è un fotografo che stà cercando di crearsi uno spazio. Metaforico e reale (click qui)
Auguriamo a Eugenio "in bocca al lupo". Invito quindi tutti gli altri colleghi con un progetto interessante a commentare questo post per farsi un po' di pubblicità! Orsù!

mercoledì 21 novembre 2012

Quando un pezzo del reale è menzogna



Questa foto risale a un paio di anni fa, quando l'imbarcazione "freedom flottilla", che si proponeva di raggiungere Gaza portando agli abitanti aiuti umanitari, venne bloccata dai soldati israeliani, uno dei quali vediamo, nella foto, immobilizzato dagli attivisti a bordo dell'imbarcazione. L'istantanea, immessa nel circuito editoriale internazionale dall'agenzia Reuters, era stata volontariamente croppata (tagliata) in modo da eliminare dall'inquadratura le armi impugnate dai pacifisti. 
Sono seguite scuse formali, ma questo tipo disonesto di utilizzo delle immagini è sopravvissuto e si è reso più potente sfruttando il dilagante utilizzo del web che offre, con un click, la possibilità di esprimere anche opinioni formate sulla menzogna e la mala fede. Inganni da cui è possibile difendersi realizzando, una volta per tutte, che la fotografia non rappresenta la realtà, ma un pezzo del reale, ed esso, non essendo realtà assoulta, può anche essere un pezzo di qualcos'altro. Le idee sono una cosa importante. Sapere dove le andiamo a prendere ci potrebbe aiutare.


All'inizio della mia carriera come fotoreporter, mi ricordo, fui inviato (che detto così fa più figo) a Vicenza in occasione di una delle manifestazioni di protesta contro la base americana Dal Molin. Non ero mai stato a una manifestazione da fotografo. Era la mia prima volta e non è che fossi proprio pratico di manifestazioni in generale. Da quel giorno di manifestazioni ne ho fotografate tante e non c'è voluto troppo per capire come proporre ai giornali la notizia in modo che acquistassero le fotografie da pubblicare.
Fondamentale, avevo sagacemente intuito, è scattare un'immagine in cui ci sia tanta gente tutta insieme in modo da dare l'idea che la piazza o la strada in cui si svolge la protesta sia piena. In questo modo si fa più notizia perchè indica l'alta affluenza e il consenso riscosso nell'opinione pubblica.
Poi ci sono i cartelli e gli striscioni. Quando non sono quelli ripresi dai movimenti degli anni 70 sono colorati e divertenti e sono come ogni slogan deve essere: immediato, incisivo, senza spazio alla replica e ridondante.
Per non parlare dei fumogeni, i look strambi, le foto dei cani con i fiocchetti colorati e le divise degli agenti.
E infine la violenza. Quella fa più punti di ogni foto-cartolina: manganellate, sassi, bottiglie, calci, pugni, scudi, formazioni militari dall'una e dall'altra parte, strategie, lacrime, urla. Quando si arriva alo scontro ogni fotografo sa che la possibilità di guadagnarsi la pagnotta, quel giorno, è esponenzialmente più alta.
Durante eventi come le manifestazioni, ogni inquadratura rappresenta la possibilità di condensare informazioni, o esercizi di stile, e determinare chi, tra i reporter, sia il più bravo e il più poetico: cartello + bella ragazza che lo sorregge + (meglio se con) urla convinte + folla dietro di lei sempre piu sfocata. Se davanti ci piazziamo l'elmetto del poliziotto fuori fuoco abbiamo creato un bel momento della manifestazione.
Ogni elemento che noi abbiamo bloccato e inviato in formato digitale alle varie redazioni corrisponde a un preciso momento. Un momento inequivocabilmente avvenuto.
In quello stesso momento, nello spazio e nel tempo, si trovavano altri elementi. Non pertinenti, lontani, cromaticamente stridenti, che non abbiamo visto, brutti e così via. Non importa. Quello che importa è che abbiamo svolto correttamente il nostro mestiere e documentato un fatto così com'era. Ci siamo limitati a renderlo visivamente migliore grazie alla nostra competenza specifica nel campo delle immagini. Dopo 120 o 180 giorni verremo pagati per quelle fotografie pubblicate e potremo pagarci un Kebab in compagnia.
Ora vi svelo la possibilità di scattare, in quella stessa manifestazione, un'altra immagine. Sarebbe sufficiente spostarsi dal centro dell'azione, dal corteo, immortalando, ad esempio, un giovane con lo sguardo allampanato, e una maglietta nera con una grossa A stampata in rosso sul petto, mentre soffia una nuvola grigia di fumo aspirato da una sigaretta che regge stancamente tra le dita sporche. Il ragazzo è appoggiato a un muro, indossa calzoni strppati sulle ginocchia e già che ci siamo ha un ciuffo verde di capelli. Costui, che sfoggia pure un tatuaggio sul collo, ha posato la bandiera di un X movimento a testa in giù per terra. Intorno a lui nessuno. Quella foto la scattiamo per le più svariate ragioni rimanendo nell'ambito del nostro mestiere e dell'assenza di coinvolgimento emotivo/ideologico rispetto al contesto. Si spera. La scattiamo perchè, pensando alla documentazione di un evento, ci interessa conferire alla narrazione un po' di ritmo con una scena più statica magari.
Possiamo però averla scattata affinchè un giornale conservatore la utilizzi per additare il lazzarone perditempo e criticare l'integrità della protesta. Eticamente sarebbe poco simpatico, ma nel caso in cui la manifestazione fosse stata effettivamente un flop, quell'immagine, e non quella della ragazza con dietro la folla sfocata, sarebbe maggiormente rappresentativa.
Rimane il fatto che tra i bordi dell'immagine c'era quello e nient'altro.
Il fotografo ha poco, quando alcun, controllo sulle fasi che seguono il momento in cui trasmette le foto. Un'immagine può essere utilizzata per sbaglio, o di proposito, anche mesi, quando non anni dopo l'evento cui si riferisce. E spesso a sua insaputa. E' per questo che il professionista serio cerca di descrivere, per mezzo di una didascalia scritta, il contesto e il soggetto della foto. Un modo anche per tutelarsi oltre che esprimere più chiaramente note, luoghi, persone, situazioni che dalla foto non emergono, ma che risultano importanti ai fini descrittivi e così via.

La produzione e l'utilizzo fazioso della fotografia, i fotomontaggi, la condivisione sui social media di materiale informativo non verificato, fino alla palese mancanza, da parte di alcuni utenti, di controllare il prodotto che stanno proponendo quando poi, esso, risulta essere costruto ad arte, quindi palesemente falso, è profondamente sbagliato. Lo fanno le persone cattive per seminare disinformazione e strumentalizzare gli eventi. Il rischio per un utente poco informato e impressionabile è che ci creda.
Rendersi complici di questi atti calcolatamente destabilizzanti rende evidenti molti dei limiti di una persona in merito alla sua capacità di formarsi delle idee, e quindi delle opinioni. Contribuisce a inculcare, amplificandone la portata, elementi distorsivi della realtà. Quella stessa realtà che la fotografia ha la presunzione di rappresentare, ma che assolutamente non rappresenta.
Questa realtà volutamente inesatta ci mostra, quando utilizzata dichiaratamente a tale scopo, una fetta del reale, la contingenza spruzzata da un pensiero, non la realtà in termini assoluti, che quella è un'altra cosa e non la conosce nessuno.
Il fotografo ha il compito di filtrare attraverso la sua sensibilità, la sua cultura, le informazioni di cui dispone. Dal canto mio, in qualità di umile servitore della verità in fotografia, e da conoscitore delle dinamiche che regolano la produzione delle informazioni visive, vi porto questo messaggio che spero vorrete considerare.

Ti chiedo pertanto di non condividere  la foto di una piazza gremita di gente che sotto riporta la scritta "ieri 500.000 persone hanno manifestato in Spagna, Italia cosa aspetti?!". La scritta è stata accostata a questa immagine in un secondo momento da una persona che con l'autore non ha nulla a che fare. Se tu avessi osservato, anche solo per 5 secondi, l'immagine avresti notato la bandiera al centro della piazza e realizzato che quella foto si riferiva a un evento accaduto non in Spagna, ma in un paese di un altro continente addirittura!

Anche se la vostra cultura cinematografica non è molto approfondita, e non riuscite a collegare un cielo irrealmente tempestoso minacciare la Statua della Libertà con quella proposta in un film catastrofico, cercate di capire da dove viene quella foto. Individuare chi l'ha postata per primo se non proviene dal circuito ufficiale di informazione. Il primo che la condivide non vince un peluche. A verificare ci si impiega un paio di minuti e si risparmia una figuraccia.

Se siete dei fotografi professionisti adulti e condividete, sull'onda dell'entusiasmo mediatico, le foto di due calciatori che reggono una maglietta recante una bandiera successivamente unite tra loro da qualcuno che ivi scrive una minaccia di morte in rosso su una fascia gialla verticale, beh.. o realizzate la cazzata o cambiate mestiere per favore, perchè, purtroppo, soprattutto in questo momento, di esempi come questo è pieno. E come potete vedere dalla foto lassù, le anime disoneste non imparano dalle lezioni.


Subito dopo aver scritto questo post è uscita la notizia che il giornalista BBC Jon Donnison ha Retweettato, cioè condiviso, ai suoi quasi 8000 follower, l'immagine straziante di una bambina ferita (o morta non c'è la certezza di stabilirlo a questo punto) sostenendo si trattasse di una conseguenza dei bombardamenti israeliani su Gaza. Scoppia lo scandalo quando si scopre che quella foto si riferisce, invece, ai massacri siriani.



Le fotografie di questo articolo, nel rispetto del diritto d'autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941


sabato 17 novembre 2012

Fotografia e Instagram. Prove di convivenza


 













Nel secondo trimestre del 2012 le vendite di smartphone hanno toccato i 153,6 milioni di unità (fonte Il Sole 24 Ore). E’ verosimile ritenere che al mondo esistano almeno 150 milioni di fotografi e che questi scattino immagini con uno smartphone. Parecchie immagini.
Sono un fotografo anch’io e da quando ho scoperto Instagram, l’applicazione gratuita che permette agli utenti di scattare foto su cui applicare filtri creativi, mi diverto a postare le immagini catturate con il mio I-Phone su Facebook e Twitter, scoprendo così un nuovo ambito espressivo.
Da professionista non mi sento particolarmente minacciato dal proliferare di questi nuovi strumenti di comunicazione visiva poiché ritengo che cambiando il mezzo attraverso cui è possibile registrare la realtà che ci circonda debba per forza cambiare anche la funzione che gli si attribuisce, e da questa il suo valore.

Essere costretti, navigando sul web, a sorbirsi un’infinità di “immagini spazzatura” è sicuramente noioso, fa infuriare parecchi colleghi, ma se si comincia a considerare Fotografia solo l’immagine concepita come tale, e non quella resa possibile esclusivamente perché il telefono delle persone è accidentalmente dotato di fotocamera, allora internet diventerà veramente un contenitore di qualità ai nostri occhi. Bisogna solo capire quali siano le caratteristiche che identifichino una fotografia degna di questo nome, ossia di scrittura con la luce, distinguendola da tutto il resto.

Vengono in soccorso, in una sorta di aiuto fisiologico nato dalle esigenze di utenti più sensibili, programmi che offrono un maggiore sviluppo del linguaggio fotografico e dei modi di esprimersi attraverso la fotografia, come Instagram appunto. La registrazione della scena che abbiamo davanti avviene alla stessa stregua di quella ottenuta utilizzando una fotocamera digitale nonostante la tecnologia rimanga piuttosto elementare. La grande differenza si manifesta nella capacità che uno strumento tascabile multiuso sembra aver avuto di avvicinare la nostra mente e il nostro occhio al vivere comune. Quelle stesse “piccolezze” quotidiane di fronte alle quali i fotografi difficilmente avrebbero concentrato la loro attenzione, ma che proprio in virtù della loro natura marginale sono a portata di un maneggevole obiettivo.  Sarebbe semplicemente opportuno considerare l’atto con cui fotografiamo un atteggiamento consapevole orientato alla volontà di comunicare qualcosa di specifico in modo efficace. 














Pensandoci bene anche 100 anni fa erano tutti potenziali fotografi, ma l’accesso alla professione presentava svariate barriere all’ingresso, sia in termini di costi, che di competenze, mantenendo la fotografia al riparo dal dilettantismo più sfrenato. L’avvento delle fotocamere 35 mm prima, e la rivoluzione del digitale poi, hanno creato, in periodi differenti, un vero e proprio boom di utenti. L’epoca della condivisione dei contenuti fotografici che stiamo attraversando è solo l’ultima fase. 
La realtà che viviamo ci presenta un mondo che cambia. Cambiano le regole. Internet ha reso possibile a chiunque di avvantaggiarsi degli stessi diritti riservati ai professionisti. Una piattaforma talmente democratica da diventare in questo modo anti-democratica: “una bella foto prima o poi ci riuscirà”. E’ quello che pensano molte persone,  “basta un click”, con la differenza che, nel provarci, obbligano tutta la loro cerchia di contatti e follower a seguirne i maldestri tentativi.
Una democrazia è gestibile attraverso la cultura e la consapevolezza. In Italia manca la cultura fotografica. Elevare la considerazione della fotografia ci porterà automaticamente a cestinare quella parte di produzione nata dalla convinzione che per realizzare una bella foto sia sufficiente alterare i colori, esasperare i contrasti, apporre una cornice effetto polaroid e generare decine di like. Ci porterà a considerare quelle immagini dei semplici incidenti di percorso necessari a una società che sta prendendo visivamente consapevolezza di sé. E comunque, guai se fossero tutti consapevoli. Sarebbe una gran noia!
Volendo spostare fugacemente l’attenzione sugli effetti che la popolarità di Instagram sta avendo sul mercato della fotografia, beh, chi ci vive in mezzo da professionista, sia esso documentarista, tecnico, artista, editore, giornalista, art director e così via, sa bene che le cose sono un tantino più complicate e le storture talmente profonde e paradossali che Instagram non può certo essere l’ultimo capro espiatorio in attesa della prossima scossa.

Utilizzare Instagram per realizzare fotografie non è stata per me una scelta di metodo, ma di reazione: sono interessato al momento da catturare e meno allo strumento. Un modo per evadere dalla routine della committenza che esige l’impiego di un’attrezzatura professionale capace di far fronte a molteplici situazioni particolari.
Ho scoperto che per un certo tipo di utilizzo, quello più estemporaneo, avere con me uno strumento che registrasse la realtà in qualsiasi momento, che consentisse una narrativa non programmata, era diventato fondamentale. La realtà che lo schermo del telefono mi restituiva era assolutamente diversa da quella che per lavoro o per ricerca avevo, fin da allora, affrontato. Ne sono nati luoghi caratterizzati dall’assenza quasi totale di elementi umani. Delle scenografie teatrali in cui l’osservatore è spinto a inserire una trasposizione di sé in una finestra sul reale, creata per ospitarne l’evasione. 

I nostri follower sembrano così essere diventati i veri destinatari di ciò che produciamo. Con la possibilità di condividere i contenuti, specie visivi, i social media hanno innescato nuovi bisogni in termini di ecomunicazione ed espressione. Tuttavia, l'intimità che la forma di queste immagini consente sembra venir compensata, fino a renderla vana, dall'impossibilità che queste parti del nostro ingegno restino, entro un certo limite, private. Devo condividere per affermare che ho un modo di vedere le cose. Devo mostrare che cosa vedo. In ogni momento. Ritengo che Instagram rappresenti un grande strumento, come numero di utenti quasi una rivoluzione, ma non può essere identificato a priori con la fotografia.

mercoledì 18 aprile 2012

Sui mestieri

"Milo & Nasa", Houston 2012 © Milo Sciaky



Circa 25 anni fa ero un bambino abbastanza normale e sereno. Molto socievole. Alle volte troppo. Da grande avrei voluto fare tutti i mestieri che di solito sognano di fare i bambini, ma tutti quanti insieme. Presto ho cominciato a farmi un sacco di domande su questo e su quello e mi sembrava di essere l'unico a martellarsi le membra a quel modo. Sono pure arrivato, in una fase di estrema modestia estiva, a convincermi che in effetti ero io la reincarnazione di Dio, distorcendo un tantino gli insegnamenti ebraici che avevano appena cominciato a impartirmi in prima elementare. Era un periodo confuso, ma me la cavavo piuttosto bene. Con qualche aiutino esterno, ma bene.
In classe, durante la lezione, biombavo in un mondo tutto mio in cui facevo cose pazzesche. Al suono della campanella tornavo in possesso della mia realtà e cercavo di metterle in pratica come una turbina.
Sicuramente la televisione ha aiutato e aggrovigliato il mio processo cognitivo inducendomi a pensare che avrei potuto fare qualsiasi cosa nella mia vita. E così me ne sono convinto. Ne sono convinto anche adesso. Solo che adesso sembra tutto un tantino più complicato: ho scoperto di recente di avere dei limiti. Fisici, psichici e di tempo.
Se c'è un mestiere che però non ho mai sognato di fare è l'astronauta. 
Ora so perché: semplicemente perché le persone sono tutte diverse tra loro e non solo sognare di andare un giorno a esplorare lo spazio alle volte può sfuggire come possibilità professionale, ma anche perché è davvero complicato accidenti. 
Pochi diventano astronauti e, lo dico con ritrovata modestia, molto probabilmente io non ci sarei mai riuscito. Diventi astronauta se sei assolutamente determinato e lavori sodo. Questo ovviamente vale un po' per tutti i mestieri, ma in questo caso devi pure sapere la matematica ed avere un approccio pratico alle cose. Accantonando a priori la prima, si può anche pensare di sviluppare il secondo, di abituarsi ad affrontare le situazioni in maniera analitica, ma per quanto mi riguarda, beh, se guardo una partita di calcio in tv comincio a pensare come sarebbe potuta essere la mia vita se solo avessi intrapreso la carriera di calciatore. Quando ascolto una canzone mi guardo allo specchio e penso che se solo mi fossi impegnato a pensare e buttare giù qualche strofa, rima, o imparato a suonare uno strumento forse... Se fossi nato negli anni 30 o qui, in Texas, oppure biondo. Non ho mai pensato cosa avrei potuto fare se fossi stato una donna però. Proiezioni.
Azzardando una metafora geometrica potrei dire che per diventare astronauta il cervello deve perlopiù viaggiare seguendo una linea retta. Il mio di cervello va a zigo zago. Seguo un luccichio e gli vado in contro, poi, sulla strada sento un suono ammaliante, mi giro nella sua direzione pronto a farlo mio, poi mi ricordo di quella cosa che avevo pensato di fare e, se vince sulle altre, mi ci dedico appieno. Fino alla prossima sfida. Questione di stimoli. 
Piombando in mezzo agli astronauti nel famoso tempio dello spazio, la Nasa, pensavo di trovare il sommo modello umano del sognatore. Quale sogno può essere più romantico che fluttuare nell'immensa solitudine della galassia?! Ora mi chiedo: con tutto quello che hanno da fare queste persone per compiere un'avventura simile il tempo per sognare proprio non c'è. Hanno i piedi per terra loro. Curioso paradosso. Sogno io per tutti quanti allora, e speriamo di combinare comunque qualcosa da grande! Di sicuro non l'astronauta, mi distraggo troppo facilmente e potrebbe essere un disastro lassù.


lunedì 16 aprile 2012

Cowboy, pick-up e pistole

"Mc Donald's in NASA Rd. 1" Houston, 2012 © Milo Sciaky



Non capisci quanto un qualche tipo di educazione ti abbia influenzato fintanto che non hai modi di risalire alle sue origini. Io finalmente l'ho capito arrivando in Texas. 
Durante questi quasi 30 anni di vita la mia percezione della realtà è stata modellata dalla televisione. Non che già non lo sapessi. Tra la scuola e la tv sicuramente la prima è stata una presenza meno permeante di quanto non sia stata la "scatola magica". Sono assolutamente certo di aver passato più tempo seduto sul divano ad assorbire contenuti di vario genere in rapide sequenze d'immagini che in classe o sui libri. E la cosa non mi imbarazza per nulla. Se sono quello che sono e so quello che so lo devo alla televisione. Non sembra una cosa bella da dire, ma ora ne ne ho preso piena consapevolezza e non posso farci niente. Sono un figlio illegittimo di Hollywood. 
Non ero mai stato in Texas prima. Non credo che molti possano avere elevate pulsioni turistiche verso queste distese infinite di deserti e basse case in aree urbane che si susseguono senza soluzione di continuità. Impossibili da percorrere senza una mastodontica automobile Pick-up con teschi di toro sul cofano. Non ci ero mai stato eppure lo conoscevo già. Tutti, anche coloro che non hanno mai visitato gli USA, in definitiva, li conoscono bene grazie alla impressionante produzione cinematografica ambientata da queste parti. Meno riconoscibili di quanto non possano essere, ad esempio, New York o Las Vegas. Terre, al contrario, indefinite perché tutte uguali; terre in cui perdersi e far perdere le proprie tracce. Il sud del paese. Ruvido e bollente. Dove gli uomini indossano cappelloni da Cowboy e girano con le fondine al cinturone e le pistole dentro, sputando scuro tabacco nella sabbia. La barba incolta e sporca.
Io, che sono uno di quelli che resiste alle pressioni del sonno sui voli aerei per guardare più film possibili durante il volo, sapevo benissimo cosa avrei trovato una volta giunto a destinazione. Avevo gli occhi e l'immaginazione pieni di situazioni che avrei ritrovato presto e non so che cosa avrei dato per poter fare un detour e visitare la chiesetta, a El Paso, in cui Uma Turman è stata crivellata di colpi, in cinta e con in dosso l'abito da sposa, dalla furia omicida di Bill, nel celeberrimo film di Quentin Tarantino.
Il mio più grande desiderio era di alloggiare in uno di quei Motel on the road in cui succede sempre qualcosa di brutto, quelli tipo "Non è un paese per vecchi" dei fratelli Cohen. Ebbene, manco a farlo apposta è da uno di questi che ora scrivo. Digito rapidamente parole sui tastini del computer intervallando la narrazione con rapide e atterrite occhiate alla porta d'ingresso della mia stanza per essere sicuro che il classico lucchetto a catenella rimanga al suo posto. Le tende della finestra che dà sul corridoio a portico ben chiuse per evitare che i sicari messicani con i fucili a pompa possano vedermi e crivellare il mio corpo di colpi. Il tutto per quella borsa piena zeppa di dollari che ho nascosto sotto al letto.

"Aspettando l'arrivo dei sicari messicani" Houston, 2012 © Milo Sciaky




martedì 10 aprile 2012

Once upon a time qua e là

"Sognando Robert Frank" Milano, 2012 © Milo Sciaky



Sono tornato da Hong Kong da quasi un mese ormai. A fine maggio ci ritornerò. Aspetterò che mia sorella dia alla luce Giulia in modo da poterle dire "Ciao!" da subito, che dopo sta male. Parteciperò ai festeggiamenti e mangerò a sbaffo per giorni. Baci, abbracci e via a continuare quello che ho iniziato. Piuttosto a cercare di capire cosa esattamente io abbia iniziato laggiù. 
Questo mese a Milano è stato interessante. Ho provato anticipatamente, sulla mia pelle, cosa sia la pensione. E devo dirlo: ci sono stato proprio bene!
Ad ogni modo credo che per poter sopravvivere i prossimi 50 anni o giù di lì sarà necessario che produca ancora qualcosina e quindi mi sono dato da fare per trovare cose degne di nota e domani partirò alla volta del Texas, per rincorrerne una che inseguo da tempo. Una di quelle che potrebbero essere buone altrimenti potrebbe essere un buon disastro. La rovinosa caduta di un astro mai nato del fotogiornalismo mondiale.
In Texas non ci sono mai stato e quelle terre mi affascinano. Spero solo di riuscire a passare almeno una notte in uno di quei Motel sulle strade statali, e deserte, in cui succede sempre qualche cosa di pazzesco.
Quindi: "Once upon a Time... in Texas!"   Perchè no! 
Il Blog continua a tenermi una piacevole compagnia ovunque. Se volete farmene anche voi leggete che magari ci scriverò qualcosa di interessante!

venerdì 6 aprile 2012

Motivi per restare

"Signora contenta sulla Avenue of Stars" Hong Kong, 2012 © Milo Sciaky



Ho scritto il seguente testo per la rivista fotografica online VoicesMag, creata dal collettivo fotografico Micro . Mi è stato chiesto di descrivere la mia esperienza e i motivi che secondo me avrebbero pesato sulla scelta di rimanere o meno in Italia. Tornerò a Hong Kong a fine maggio e vedremo cosa mi aspetterà.


Avevo degli ottimi motivi per non restare: presto, nel corso della mia giovane carriera di fotografo, ho realizzato che avrei potuto scattare le mie immagini in qualsiasi posto sulla terra. Un click fa lo stesso rumore ovunque. Il luogo non è una variabile troppo significativa. Il concetto è relativamente semplice. L’azione stessa del fotografare ancora di più.
Ero a cavallo. Sapevo solo io qualcosa che tutti quanti gli altri non sapevano. Quello che evidentemente tutti gli altri sapevano e io no, però, era che delle immagini tanto memorabili devono essere tramutate in sostentamento e quindi vendute attraverso una complessa e incerta attività di marketing che con il significato stretto del fotografare c’entra poco e con me ancora meno. Non saremo mai solo dei fotografi. E’ per questo motivo che dio ci ha fornito una partita Iva.
Ormai però era troppo tardi. Il mio cervello aveva cominciato a elaborare una via di fuga dalla vita di “cronacaro” nella giungla milanese, una realtà che cominciava a starmi un pochino stretta. E’ così che presto diventai un photoreporter freelance, decidendo subito dopo di optare per “fotoreporter indipendente” il cui significato mi era più chiaro.
La carriera così nuovamente configurata durò circa tre mesi. Il tempo per finire quasi sull’orlo del precipizio sociale. In un baleno avevo perso l’indipendenza tanto bramata, riacquistandola solo un paio d’anni dopo quando la famosa crisi, che alla fin fine si era scoperto esserci veramente, aveva messo con le spalle al muro anche i migliori. Figurarsi me.
Avere un lavoro così flessibile è comunque cosa assai buona e con la scusa di cercare l’ispirazione o l’idea innovativa ero legittimato a oziare produttivamente tra film, libri, chiacchierate, e ogni attività che avrebbe potuto gettare un po’ di luce capace di condurmi sul sentiero di una svolta.
Una mattina mi svegliavo ed ero il super-fotografo, con in testa una super-idea. Il mattino successivo il panico si svegliava accanto allo stesso tizio, solo un po’ più insicuro e scoraggiato, ripetendogli malignamente all’orecchio frasi disfattiste dall’eco catastrofico. Lo sapevo. Sarei finito a fare il pony express come da ragazzetto e le foto la domenica.
Poi però l’istinto di sopravvivenza che è in me si è dato finalmente una disciulata esortandomi a dare una bella mischiata alle carte e fare come Eddie Murphy ne “Il principe cerca moglie”. Così ho dato una vigorosa girata al mappamondo e ho puntato il dito a caso scoprendo che la mia prossima destinazione sarebbe stata Hong Kong! Wow. Eccitante!
Più o meno è andata così.
I sillogismi tutto sommato elementari che governano i miei ragionamenti mi avevano spinto a considerare che nonostante la mole di notizie che provengono dall’estremo oriente tra Tsunami, Corea del Nord, robe cinesi, e dissidenti birmani, a Hong Kong le uniche foto presenti in giro, a parte la Sars, esaltano lo Skyline più alto del mondo in tutte le salse, ma di storie vere dal “Porto Profumato” quasi nulla. Tutto è business da quelle parti. Avrei colmato io questo vuoto. Sentivo che avrebbe potuta essere un’idea vincente.
Di motivi particolari per restare non ne avevo. O quasi:
Avevo un motorino, dei libri e dei vestiti. Quelli avrebbero potuto finire nel box.
Avevo degli amici. Con Skype e Facebook sono tutti amici e ovunque.
Avevo una casa. Due stanze in un quartiere popolare a sud-est di Milano che mi ciucciavano mensilmente più di quanto stessi guadagnando e che avrei affittato felicemente per riemergere, almeno momentaneamente, dagli abissi finanziari.
Avevo dei genitori. Per i quali valeva lo stesso discorso degli amici. Peccato solo per i regali di compleanno e ricorrenze varie che non avrei probabilmente ricevuto, ma ero sicuro che avrebbero trovato il modo per farmi felice in quei giorni speciali anche dall’altra parte del mondo come hanno sempre fatto.
L’unico vero problema era che avevo pure una fidanzatina.
Questa ragazza aveva degli amici, una casa graziosa e un lavoro. Uno di quelli veri. Era felice e contenta mentre io un po’ meno. Poi ho scoperto che quando due persone si vogliono bene, entrambe sono felici se l’altra è felice, ma entrambe sono infelici se una è infelice. In pratica, quindi, è stata lei a esortarmi a intraprendere la nuova avventura consapevole delle difficoltà che stavo attraversando e vedendo in questo cambiamento radicale di prospettiva una possibilità di ingranare la marcia giusta. L’unico vero motivo per restare era quello che mi voleva mandare via! Se questo non è amore!
La fase iniziale del mio piano è terminata pochi giorni fa. I primi tre mesi in cui avrei dovuto prendere confidenza con il luogo, le sue genti e produrre qualcosa d’interessante, comportandomi come un cagnolino che fa pipì per marcare il suo territorio, erano andati lisci. Tutto fatto. Il risultato intermedio mi soddisfa assai.
E così sono momentaneamente rimpatriato, soddisfatto e rilassato, gioviale ed energico, per espletare alcuni obblighi familiari, lavorativi e affrontare un pacco di scartoffie che mi hanno accolto trepidanti sulla scrivania di mio papà: bollette arretrate, solleciti di pagamenti, assicurazioni di cui avevo dimenticato la stipulazione, fatture in sospeso, multe che alla fine hanno trovato l’indirizzo di casa mia. Prendete nota: nessuno può scappare veramente!
Ed è questa la riflessione su cui ho cominciato a tirare le somme effettive: un lavoro fantastico come quello che svolgo è speciale perché profondamente diverso dai canoni comunemente accettati. Può essere svolto ovunque e venduto ovunque. Io non sono capace di vendere proprio nulla, ma l’esperienza Hongkonghese mi ha fatto capire come non sia necessario cercare un inserimento alternativo alla realtà nostrana, quanto piuttosto una diversa area d’interesse. Un respiro, una prospettiva nuova capace di far emergere occasioni propizie laddove non si sarebbe pensato di andarle a cercare in un campo di concorrenza fotografica globale. Un modo per muovere le acque, darsi delle possibilità, consapevoli che il difficile viene dopo e che lo scatto è solo l’inizio.
Hong Kong ha fama di essere la città delle opportunità, ma è anche famosa per comportarsi come una bella donna un po’ lunatica che ti porta sul palmo della mano un giorno lasciandoti cadere nel vuoto quello seguente se non ti dimostri all’altezza.
Sono partito per l’ex colonia britannica animato dalla ferma intenzione di capire se sarei riuscito laddove in Italia sembrava impossibile, se avrebbe avuto senso per me trasferirmi, lavorare nel magico punto di incontro tra oriente e occidente e la risposta, dopo averla vissuta intensamente, è no.
Ci può vivere un turista per due settimane di vacanza, hiking e shopping. Un espatriato spesato e strapagato da un’azienda che lo assume per lavorare ai ritmi pazzeschi per cui la città è famosa, ma non un photo-qualunque-sia-il-modo-giusto-per-chiamarlo come me.
Sarebbe fiscalmente assai più conveniente se trasferissi la mia residenza all’ombra del Dragone. Pagherei molte meno tasse, ma non avrei mai la possibilità di affrontare il prezzo di un alloggio nella città in cui il metro quadrato costa di più al mondo. Chiamiamolo il “rovescio della medaglia” che in definitiva si cela dietro ogni cosa.
Non intendo venire assunto in Italia come non accetterei un lavoro e uno stipendio a New York o a Hong Kong. Io un lavoro ce l’ho già e non ce l’ho. Non sono un ingegnere, un manager o un cuoco. Non voglio giocare con determinate regole e quindi non mi aspetto che queste mi vengano in aiuto. Quello che voglio fare è scattare le immagini che mi pare, come e quando mi pare. Non il massimo dell’umiltà a pensarci bene. Perché mai qualcuno a Hong Kong dovrebbe volermi dare dei soldi per delle foto e delle storie che nessuno mi ha chiesto?
Avere una base nel proprio paese in cui tornare può essere molto utile quando si cerca di rincorrere un sogno. Basta considerare queste abnormi tasse, e alcune fastidiose anomalie italiche, il prezzo da pagare per usufruire delle native reti di sostegno. Un punto fermo qualunque. Qualcosa o qualcuno di conosciuto. Un modo per non incazzarsi troppo, perché come succede quando si ammira la foto di un paesaggio mozzafiato, è sempre un po’ una delusione nel momento in cui si smette di contemplarlo da lontano e finalmente ci si finisce in mezzo.
I miei motivi per restare sono proprio che non ne vedo abbastanza per andare via.



Milo Sciaky