"Signora contenta sulla Avenue of Stars" Hong Kong, 2012 © Milo Sciaky
Ho scritto il seguente testo per la rivista fotografica online VoicesMag, creata dal collettivo fotografico Micro . Mi è stato chiesto di descrivere la mia esperienza e i motivi che secondo me avrebbero pesato sulla scelta di rimanere o meno in Italia. Tornerò a Hong Kong a fine maggio e vedremo cosa mi aspetterà.
Avevo
degli ottimi motivi per non restare: presto, nel corso della mia giovane
carriera di fotografo, ho realizzato che avrei potuto scattare le mie immagini
in qualsiasi posto sulla terra. Un click fa lo stesso rumore ovunque. Il luogo
non è una variabile troppo significativa. Il concetto è relativamente semplice.
L’azione stessa del fotografare ancora di più.
Ero
a cavallo. Sapevo solo io qualcosa che tutti quanti gli altri non sapevano. Quello
che evidentemente tutti gli altri sapevano e io no, però, era che delle
immagini tanto memorabili devono essere tramutate in sostentamento e quindi
vendute attraverso una complessa e incerta attività di marketing che con il
significato stretto del fotografare c’entra poco e con me ancora meno. Non
saremo mai solo dei fotografi. E’ per questo motivo che dio ci ha fornito una
partita Iva.
Ormai
però era troppo tardi. Il mio cervello aveva cominciato a elaborare una via di
fuga dalla vita di “cronacaro” nella giungla milanese, una realtà che
cominciava a starmi un pochino stretta. E’ così che presto diventai un
photoreporter freelance, decidendo subito dopo di optare per “fotoreporter
indipendente” il cui significato mi era più chiaro.
La
carriera così nuovamente configurata durò circa tre mesi. Il tempo per finire
quasi sull’orlo del precipizio sociale. In un baleno avevo perso l’indipendenza
tanto bramata, riacquistandola solo un paio d’anni dopo quando la famosa crisi,
che alla fin fine si era scoperto esserci veramente, aveva messo con le spalle
al muro anche i migliori. Figurarsi me.
Avere
un lavoro così flessibile è comunque cosa assai buona e con la scusa di cercare
l’ispirazione o l’idea innovativa ero legittimato a oziare produttivamente tra
film, libri, chiacchierate, e ogni attività che avrebbe potuto gettare un po’
di luce capace di condurmi sul sentiero di una svolta.
Una
mattina mi svegliavo ed ero il super-fotografo, con in testa una super-idea. Il
mattino successivo il panico si svegliava accanto allo stesso tizio, solo un
po’ più insicuro e scoraggiato, ripetendogli malignamente all’orecchio frasi
disfattiste dall’eco catastrofico. Lo sapevo. Sarei finito a fare il pony
express come da ragazzetto e le foto la domenica.
Poi
però l’istinto di sopravvivenza che è in me si è dato finalmente una disciulata
esortandomi a dare una bella mischiata alle carte e fare come Eddie Murphy ne
“Il principe cerca moglie”. Così ho dato una vigorosa girata al mappamondo e ho
puntato il dito a caso scoprendo che la mia prossima destinazione sarebbe stata
Hong Kong! Wow. Eccitante!
Più
o meno è andata così.
I
sillogismi tutto sommato elementari che governano i miei ragionamenti mi
avevano spinto a considerare che nonostante la mole di notizie che provengono
dall’estremo oriente tra Tsunami, Corea del Nord, robe cinesi, e dissidenti
birmani, a Hong Kong le uniche foto presenti in giro, a parte la Sars, esaltano
lo Skyline più alto del mondo in tutte le salse, ma di storie vere dal “Porto
Profumato” quasi nulla. Tutto è business da quelle parti. Avrei colmato io
questo vuoto. Sentivo che avrebbe potuta essere un’idea vincente.
Di
motivi particolari per restare non ne avevo. O quasi:
Avevo
un motorino, dei libri e dei vestiti. Quelli avrebbero potuto finire nel box.
Avevo
degli amici. Con Skype e Facebook sono tutti amici e ovunque.
Avevo
una casa. Due stanze in un quartiere popolare a sud-est di Milano che mi
ciucciavano mensilmente più di quanto stessi guadagnando e che avrei affittato
felicemente per riemergere, almeno momentaneamente, dagli abissi finanziari.
Avevo
dei genitori. Per i quali valeva lo stesso discorso degli amici. Peccato solo per
i regali di compleanno e ricorrenze varie che non avrei probabilmente ricevuto,
ma ero sicuro che avrebbero trovato il modo per farmi felice in quei giorni
speciali anche dall’altra parte del mondo come hanno sempre fatto.
L’unico
vero problema era che avevo pure una fidanzatina.
Questa
ragazza aveva degli amici, una casa graziosa e un lavoro. Uno di quelli veri. Era
felice e contenta mentre io un po’ meno. Poi ho scoperto che quando due persone
si vogliono bene, entrambe sono felici se l’altra è felice, ma entrambe sono
infelici se una è infelice. In pratica, quindi, è stata lei a esortarmi a
intraprendere la nuova avventura consapevole delle difficoltà che stavo
attraversando e vedendo in questo cambiamento radicale di prospettiva una
possibilità di ingranare la marcia giusta. L’unico vero motivo per restare era
quello che mi voleva mandare via! Se questo non è amore!
La fase
iniziale del mio piano è terminata pochi giorni fa. I primi tre mesi in cui
avrei dovuto prendere confidenza con il luogo, le sue genti e produrre qualcosa
d’interessante, comportandomi come un cagnolino che fa pipì per marcare il suo
territorio, erano andati lisci. Tutto fatto. Il risultato intermedio mi soddisfa
assai.
E
così sono momentaneamente rimpatriato, soddisfatto e rilassato, gioviale ed
energico, per espletare alcuni obblighi familiari, lavorativi e affrontare un
pacco di scartoffie che mi hanno accolto trepidanti sulla scrivania di mio
papà: bollette arretrate, solleciti di pagamenti, assicurazioni di cui avevo
dimenticato la stipulazione, fatture in sospeso, multe che alla fine hanno
trovato l’indirizzo di casa mia. Prendete nota: nessuno può scappare veramente!
Ed
è questa la riflessione su cui ho cominciato a tirare le somme effettive: un
lavoro fantastico come quello che svolgo è speciale perché profondamente
diverso dai canoni comunemente accettati. Può essere svolto ovunque e venduto
ovunque. Io non sono capace di vendere proprio nulla, ma l’esperienza
Hongkonghese mi ha fatto capire come non sia necessario cercare un inserimento
alternativo alla realtà nostrana, quanto piuttosto una diversa area d’interesse.
Un respiro, una prospettiva nuova capace di far emergere occasioni propizie
laddove non si sarebbe pensato di andarle a cercare in un campo di concorrenza
fotografica globale. Un modo per muovere le acque, darsi delle possibilità,
consapevoli che il difficile viene dopo e che lo scatto è solo l’inizio.
Hong
Kong ha fama di essere la città delle opportunità, ma è anche famosa per comportarsi
come una bella donna un po’ lunatica che ti porta sul palmo della mano un giorno
lasciandoti cadere nel vuoto quello seguente se non ti dimostri all’altezza.
Sono
partito per l’ex colonia britannica animato dalla ferma intenzione di capire se
sarei riuscito laddove in Italia sembrava impossibile, se avrebbe avuto senso
per me trasferirmi, lavorare nel magico punto di incontro tra oriente e
occidente e la risposta, dopo averla vissuta intensamente, è no.
Ci
può vivere un turista per due settimane di vacanza, hiking e shopping. Un
espatriato spesato e strapagato da un’azienda che lo assume per lavorare ai ritmi
pazzeschi per cui la città è famosa, ma non un photo-qualunque-sia-il-modo-giusto-per-chiamarlo
come me.
Sarebbe
fiscalmente assai più conveniente se trasferissi la mia residenza all’ombra del
Dragone. Pagherei molte meno tasse, ma non avrei mai la possibilità di
affrontare il prezzo di un alloggio nella città in cui il metro quadrato costa
di più al mondo. Chiamiamolo il “rovescio della medaglia” che in definitiva si
cela dietro ogni cosa.
Non
intendo venire assunto in Italia come non accetterei un lavoro e uno stipendio
a New York o a Hong Kong. Io un lavoro ce l’ho già e non ce l’ho. Non sono un
ingegnere, un manager o un cuoco. Non voglio giocare con determinate regole e
quindi non mi aspetto che queste mi vengano in aiuto. Quello che voglio fare è
scattare le immagini che mi pare, come e quando mi pare. Non il massimo dell’umiltà
a pensarci bene. Perché mai qualcuno a Hong Kong dovrebbe volermi dare dei
soldi per delle foto e delle storie che nessuno mi ha chiesto?
Avere
una base nel proprio paese in cui tornare può essere molto utile quando si
cerca di rincorrere un sogno. Basta considerare queste abnormi tasse, e alcune fastidiose
anomalie italiche, il prezzo da pagare per usufruire delle native reti di
sostegno. Un punto fermo qualunque. Qualcosa o qualcuno di conosciuto. Un modo
per non incazzarsi troppo, perché come succede quando si ammira la foto di un
paesaggio mozzafiato, è sempre un po’ una delusione nel momento in cui si
smette di contemplarlo da lontano e finalmente ci si finisce in mezzo.
I miei
motivi per restare sono proprio che non ne vedo abbastanza per andare via.
Milo Sciaky
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